Fotografia

La vita in un baule … all’asta

Alcuni anni fa venni contattato dalla FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) che mi chiese di essere tra i suoi portavoce attraverso una frase che avrebbe dovuto, secondo me, ben rappresentare l’opera e l’importanza dell’associazione.

Io scrissi qualcosa tipo: “La fotografia è niente senza condivisione” dando a FIAF il merito di veicolare tanti lavori di autori contemporanei che, probabilmente, senza di essa rimarrebbero nell’anonimato.

Quindi oggi vi racconto una storia che tra noi fotografi è famosissima ma che è sconosciuta tra i più: quella di Vivian Maier. Colei che oggi è unanimemente considerata una delle più importanti esponenti della fotografia di strada del secolo scorso, in vita è stata una perfetta sconosciuta, svolgendo il lavoro di governante e bambinaia (oggi diremmo “baby sitter”) presso alcune famiglie benestanti.

Vivian Maier nacque a New York il 1° Febbraio del 1926 e morì a Chicago il 21 Aprile del 2009, a 83 anni, senza famiglia e dopo aver trascorso gran parte della sua vita nella povertà. La sua esistenza, così come le sue opere, sono avvolte in un alone di mistero che ha contribuito ad accrescerne il fascino. Due anni prima della sua morte, a causa degli affitti non pagati, venne messo all’asta il box dove conservava il suo materiale.

Fu John Maloof (all’epoca agente immobiliare), nel 2007 ad acquistare, tra le altre cose, il baule con gran parte dell’archivio fotografico (oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe). Pare che all’epoca Maloof stesse facendo una ricerca iconografica su Chicago quindi, spinto dalla curiosità per questi oggetti che raccontavano di un’esistenza solitaria e al limite dell’indigenza, cominciò a stampare alcuni negativi. Grazie all’abitudine all’accumulo (ricevute degli acquisti, biglietti dei mezzi pubblici ecc…) il giovane agente immobiliare iniziò a ricostruire l’identità di questa sconosciuta. Come in un negativo da sviluppare, la storia di quella donna cominciava a emergere, anche grazie agli incontri con le persone che l’avevano conosciuta.
In particolare, attraverso il racconto di quei bambini che Vivian aveva accudito e che oramai erano cresciuti. Ben presto, tutti i pezzi del puzzle si incastrarono al loro posto: Vivian Maier era nata da genitori di origine austriaca, che erano emigrati negli Stati Uniti negli anni Venti. Quando i genitori si separarono, andò a vivere con la madre da un’amica di lei, e fu proprio questa donna a trasmetterle la passione per la fotografia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si recò in Francia per una questione ereditaria che riguardava sua madre: pare che proprio grazie a questi soldi riuscì ad acquistare delle macchine fotografiche, con le quali realizzò i suoi primi scatti. Ritornata negli Stati Uniti, trovò lavoro come bambinaia, senza però mai smettere di coltivare la sua passione per la fotografia. Anzi: nelle giornate di libertà, andava in giro per la città, con la sua Rolleiflex. I suoi soggetti preferiti erano le persone comuni impegnate nella loro vita quotidiana: la gente semplice, quella altolocata, le strade del centro e le periferie, i riflessi delle vetrine, gli emarginati, i bambini. Osservando il suo corpus fotografico spicca la presenza di numerosi autoritratti (sotto forma di riflesso, di ombra ecc..) quasi un possibile lascito nei confronti di un pubblico con cui non ha mai voluto o potuto avere a che fare.

Ma Vivian Maier era curiosa e a un certo punto, quando le strade della sua città non le bastarono più, decise di lasciare il suo lavoro e viaggiare per il mondo.
Scattò tantissime foto e non disse mai, al suo ritorno, dove era stata. Solo le sue fotografie raccontarono di questo viaggio durato sei mesi, in cui aveva visitato l’estremo Oriente, l’Egitto, l’Italia, la Francia. Girava in bici e non fece mai amicizia con nessuno. La vita di Vivian Maier era fatta solo del suo lavoro con i bambini – che l’adoravano – e delle sue foto. Dopo aver lasciato i Gensburg, la famiglia di Chicago con cui aveva vissuto a lungo, fino a che i figli non erano diventati grandi, si trasferì presso un’altra famiglia, portando con sé 200 scatole di cartone. Dentro c’era tutta la sua vita: i suoi rullini e i suoi negativi. Le sue scatole giravano con lei, di casa in casa, di famiglia in famiglia. Quando l’età avanzò, si ritrovò in difficoltà economiche e dovette trasferirsi in una casa popolare. Fu proprio allora che la sua cassa venne messa all’asta. Mentre quel ragazzo di nome John Maloof era sulle tracce della misteriosa proprietaria della cassa, Vivian ebbe un incidente cadendo sulla neve e battendo la testa. Furono i figli della famiglia Gensburg, che le erano rimasti profondamente legati, ad aiutarla. Alla fine, Vivian morì, senza sapere che i suoi scatti stavano cominciando a diventare famosi. Maloof infatti, oltre a stamparli, cominciò a divulgarli e, colpito dall’artisticità delle fotografie, dopo aver ricostruito buona parte della sua storia, decise di realizzare un film-documentario dal titolo “Finding Vivian Maier” nel quale racconta, anche attraverso le testimonianze di chi l’aveva conosciuta, la vita di Vivian.

Finding Vivian Maier

Grazie al lavoro di questo ragazzo oggi, Vivian Maier, è conosciuta a livello planetario.

E’ ironico pensare che questa donna abbia trascorso la propria vita nell’anonimato e nella povertà e che sia diventata famosa solo dopo la sua morte, grazie ad un curioso sconosciuto.

E quindi, ripensando alla frase “La fotografia è niente senza condivisione” non posso fare a meno di pensare che, senza il coraggio di uno sconosciuto che ha voluto condividere col mondo il contenuto di un box acquistato quasi per caso, la vita di questa donna sarebbe rimasta soffocata sotto il peso della timidezza, chiusa in un baule oramai dimenticato.

Immagine di copertina di Don Sniegowski, https://www.flickr.com/photos/sniegowski/44849324164

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