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Non lasciarmi mai

Il Natale è appena passato. Per molte persone si tratta di uno dei periodi più magici dell’intero anno, se non il più bello, tanto osannato anche dai non credenti per l’occasione di ricongiungersi alle proprie famiglie e passare del tempo in compagnia di parenti, di amici umani e/o di amici pelosi. Per altri, invece, il Natale e le Feste si rivelano un’opportunità per stare da soli, per scelta, rilassandosi esclusivamente in compagnia di un buon calice di vino. Altri ancora lavoreranno e saranno felici di farlo, altri un po’ meno. E poi ci sono loro. Gli anziani soli. Quella gran fetta di anziani che non hanno più nessuno. Nel mio lavoro mi capita spesso di conoscere ed assistere anziani che non hanno neanche le possibilità economiche per permettersi un/una badante, tanto meno il soggiorno in RSA. Non hanno alcuna possibilità di passare del tempo di qualità chiacchierando con qualcuno, giocando a carte o commentando una serie tv insieme ad un figlio, un nipote, un amico. Riflettiamo su quanto questa situazione sia, in realtà, molto più frequente di quello che si pensi. Ce lo dicono i dati ISTAT 2020, numeri che ci indicano e valutano la situazione sociale degli anziani in Italia. Nel 2019 vive in coppia il 44,5% degli anziani di 75 anni e più; questo vuol dire che il resto della popolazione anziana vive con i familiari, con un/una badante, oppure vive sola. Le donne vivono più frequentemente da sole (49,2% contro il 21,7% di uomini), soprattutto le ultraottantenni (55,4% contro un quarto degli uomini). Inoltre, la quota di persone di 75 anni e più che vivono sole è più alta tra coloro che abitano nelle aree metropolitane (54,1% per le donne e 27,6% per gli uomini). Ricordiamo, in questo quadro, come il 42,3% delle persone di 75 anni e più è multicronico, cioè soffre di tre o più patologie croniche, e che la quota di anziani che, a causa di problemi di salute, dichiarano di avere gravi limitazioni nelle attività che le persone generalmente svolgono, è pari al 22% (18% tra gli uomini e 24,7% tra le donne) per salire al 27,7% tra gli ultraottantenni (22,9% tra i maschi e 29,8% tra le femmine).

Con l’avanzare degli anni e dell’età, i rapporti sociali vanno a ridursi progressivamente, per eventi della vita quali la morte del proprio coniuge o familiari di riferimento come genitori o figli, ma anche per le naturali modificazioni psicosociali.

La solitudine può essere oggettiva o soggettiva ed è una condizione molto complessa, specie nell’anziano, condizione impattante sulla salute pubblica e sulla salute mentale, che dovrebbe essere affrontata seriamente e con attenzione da parte dei servizi socio-sanitari presenti sul territorio, oltre che dai professionisti quali il medico di medicina generale, il geriatra, gli infermieri e gli assistenti sociali. Tali professionisti dovrebbero chiedersi se l’anziano viva la sua solitudine per scelta e preferenza personale, oppure se essa è parallela ad una serie di sintomi quali dolore, fatica, depressione o insonnia. Una volta analizzato il contesto, si dovrebbero valutare eventuali deficit degli organi di senso (vista e udito in primis) e organizzare, in prima battuta, un intervento sociale.

Non sempre la solitudine fisica (aloneless) coincide con sentimenti di solitudine. Per cogliere questo aspetto, è stata redatta una scala di valutazione, la Loneliness Scale a 3 items (UCLA), la quale verte su tre domande: 

1. Quante volte ti senti solo?

2. Quante volte ti senti emarginato, lasciato in disparte?

3. Quanto spesso ti senti isolato dagli altri?

Con le seguenti possibili risposte: frequentemente, spesso, a volte, mai (alle quali si può attribuire un numero 1,2,3,e 4). Attraverso essa, dunque, ci viene data l’opportunità di effettuare una valutazione quantitativa alla condizione di solitudine e di riconoscere i servizi più adeguati per mitigare gli effetti negativi di questa ormai quasi ordinaria condizione.

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Parlando di scale di valutazione e studi a riguardo, ne è stato effettuato uno da parte dell’Università di Boston, pubblicato poi sulla rivista Alzheimer’s and Dementia, i cui autori spiegano come un persistente stato di isolamento (soprattutto nella mezza età) possa raddoppiare il rischio di sviluppare varie forme di demenza, rispetto a coloro che hanno sempre vissuto in una rete sociale solida. Il campione è stato estrapolato da uno studio, il Framingham Heart Study, che procede dal 1948 e che fu avviato per controllare i rischi cardiovascolari nella popolazione, estendendosi poi in altri ambiti. Di questo campione, gli autori si sono avvalsi dei dati di 2880 adulti in una fascia di età compresa tra i 45 e i 64 anni, negli anni che vanno dal 1998 al 2001. Il campione di adulti tra i 45 e i 64 anni non presentava alcun disturbo cognitivo pregresso, inoltre ognuno di loro è stato sottoposto ad esami ogni quattro anni. A distanza di tre anni sono stati, invece, esaminati sotto il profilo della depressione, sottoponendo alcune domande ai pazienti, su quanto e quando la persona si fosse sentita sola. Per le risposte, i ricercatori di Boston hanno delineato quattro sottogruppi: «nessuna solitudine» (quando i partecipanti non dichiaravano di averne patito), «solitudine passeggera» (se i partecipanti ne parlavano a un incontro e non nel successivo), «solitudine casuale» (se il partecipante ne parlava nella seconda seduta ma non nella prima) e «solitudine persistente» (quando la persona ne parlava in ambedue gli incontri). Si è così potuto osservare che i membri dell’ultimo gruppo avevano un rischio più elevato di sviluppare una demenza rispetto a coloro che non si erano mai sentiti soli. Dai risultati è emerso che la solitudine vissuta in quella fascia di età (45-64 anni) è un fattore di rischio, indipendente è modificabile, per le degenerazioni mentali, come spiega la ricercatrice Wendy Qiu.

Ma, a sorpresa, più «protetti» di questi ultimi contro le demenze si sono rivelati, nel tempo, quanti avevano sofferto di solitudine passeggera. Per spiegare questo fatto, gli scienziati di Boston hanno trovato risposta nella “resilienza”: le persone che sono riuscite a combattere la solitudine, nel tempo, si presentano «armate» contro i processi neurodegenerativi indotti dall’avanzare dell’età.

Tra gli anziani maggiormente colpiti, comunque, troviamo quella fetta di anziani autosufficienti a livello fisico. Il percorso socio-sanitario, pertanto, si articolerà con un primo colloquio con il paziente, col quale si dovrà trovare un punto di incontro, valutando la necessità di sperimentare una soluzione sociale condivisa (come una nuova collocazione abitativa o un intervento di aiuto personalizzato ai bisogni del paziente). Fondamentale sarà, comunque, anche valutare anche la situazione economica.

Vivere insieme ad altre persone migliora la propria cura di sé, a partire dall’aderenza terapeutica ad una migliore alimentazione. Tutti questi interventi socio-sanitari hanno, infatti, l’obiettivo principale di favorire l’integrazione sociale, ingrediente cardine per il miglioramento e mantenimento delle funzioni cognitive e della qualità della vita.

Sitografia e Bibliografia:

https://www.fondazioneveronesi.it

Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, sigg.it

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